giovedì 22 ottobre 2015

Letture (s)consigliate: Hip Hop Italia di Fabio Bernabei

Ho letto "Hip Hop Italia" di Fabio Bernabei in un paio d'ore, il tempo di un volo da Roma ad Olbia l'altro ieri e il ritorno ieri sera. Opinione personale? Uno dei peggiori libri sull'Hip-Hop italiano che sia mai stato scritto. Sarò rapido: al netto di errori grossolani (indicare KRS-One tra i maggiori esponenti del Gangsta Rap è un tantino discutibile...) ed omissioni comprensibili, il libro presenta una ricostruzione più o meno completa della scena a partire dagli anni '80 (pochi cenni) fino a tutto il 2014. Già da questo punto di vista, "Hip Hop Italia" non offre commenti, testimonianze o contributi nuovi rispetto ad altri testi che affrontavano il medesimo percorso cronologico e l'impressione è che, tutto sommato, il lavoro sia prettamente compilativo, l'ennesima mappatura dell'Hip-Hop italiano attraverso le due coordinate geografiche e temporali. Il problema maggiore, tuttavia, risiede nel tentativo di veicolare fino allo sfinimento un messaggio preciso e fondato su un punto di vista che lascia parecchi dubbi: in sostanza, Fabio Bernabei ci dice che nell'Hip-Hop italiano il successo genera l'immediata reazione (negativa) del pubblico specializzato, affetto (deduco io...) da cretinismo e pregiudizi di ogni sorta, vista l'ostinazione con la quale puntualmente banna gli artisti che raggiungono determinati risultati di vendita come falsi, sucker o fake che dir si voglia. E' proprio così? E, soprattutto, la logica adottata è corretta? Secondo me no. In primis, non mancano esempi di segno inverso, basti citare Neffa, che ha ottenuto ottimi incassi con "I messaggeri..." e "107 elementi", il Frankie Hi-NRG di "La morte dei miracoli", La Pina ai tempi di "Piovono Angeli", più di recente Salmo, marchiato Tanta Roba, ma anche Ensi, Ghemon e Nitro, a quanto pare graziati - a prescindere dai gusti e dalle singole carriere - dagli anatemi più feroci dell'utenza. E' vero che i loro numeri non fanno il paio con quelli dei Club Dogo, di Fabri Fibra, di Marracash e via dicendo, ma è altrettando vero, arrivando al secondo punto, che l'analisi (o meglio: l'assenza di analisi) di Bernabei tralascia una considerazione ovvia, ovvero che non sia la celebrità in sé a far storcere i nasi dei cosiddetti b-boy fieri, bensì lo slittamento di questa musica verso sonorità Pop e palcoscenici che tuttora identificano il Rap con le corna a tre dita che faceva vent'anni fa Jovanotti. Perché un Moreno o boy band sul modello dei Gemelli DiVersi stanno sulle scatole a tanti per una ragione semplicissima, cioè perché propongono un tipo di Hip-Hop costruito su misura per un pubblico di adolescenti e per chi di questa Cultura non ha alcuna cognizione esatta, annacquandone suoni, tecnica e temi. Il che è condizione sufficiente, a mio modo di vedere, per lanciare pomodori (metaforicamente parlando!) contro loro e contro chiunque faccia altrettanto.

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